Negli ultimi mesi, il libro “La generazione ansiosa” di Jonathan Haidt ha riacceso il dibattito sull’impatto dei social media e degli smartphone sulla salute mentale dei più giovani. Con uno stile incisivo e molti dati alla mano, l’autore denuncia un’infanzia rubata e una crisi psichica diffusa, a partire dal 2010, coincidente con l’esplosione degli smartphone e delle piattaforme social. Il messaggio è chiaro: vietare i cellulari fino alle superiori, vietare i social fino ai 16 anni, bandire i telefoni dalle scuole e tornare a un’infanzia più “libera”, più fisica, più autonoma. Ma siamo sicuri che questa sia la direzione giusta? Il rischio dell’allarmismo: quando la soluzione diventa parte del problema.Come educatrice, madre e formatrice da anni immersa nel mondo della comunicazione responsabile, sento il bisogno di prendere le distanze da un certo approccio catastrofista che, seppur animato da buone intenzioni, rischia di semplificare troppo. La narrazione del “telefono cattivo” e del “ritorno al passato” parla a una generazione adulta spaventata, disorientata, e cerca di rassicurarla con ricette semplici: togliamo i dispositivi e i problemi scompariranno. Ma non funziona così. L’ansia nei giovani non nasce solo dallo smartphone. Nasce da un mondo che spesso non li ascolta, che li valuta più che accompagnarli, che li educa al rendimento ma non al sentire, che dimentica il valore della relazione. La nostalgia dell’infanzia perduta.Spesso, nei discorsi sul digitale, si contrappone un passato idealizzato – fatto di strade, giochi liberi, cadute, esplorazioni – a un presente sterile, pieno di schermi e solitudine. Ma quell’infanzia “naturale” non è mai stata davvero universale. Non lo era per chi viveva in contesti fragili, marginali, oppressivi. Non lo è per chi oggi non ha spazi sicuri in cui giocare o adulti disponibili a lasciare andare il controllo. Il mito del “si stava meglio quando si stava peggio” regge finché non lo si guarda da vicino. Perché anche prima, molti bambini non venivano ascoltati. Venivano lasciati a sé, sì, ma più per mancanza di tempo, attenzione o cultura dell’infanzia che per reale fiducia. Spesso crescevano senza adulti presenti, senza parole, senza strumenti per comprendere se stessi o il mondo emotivo. Oggi, paradossalmente, c’è molta più consapevolezza: si parla di emozioni, di attaccamento, di bisogni, di educazione rispettosa. Gli adulti si interrogano, leggono, cercano strumenti. Il problema non è che “ci siamo troppo”, ma come ci stiamo. Siamo dentro un sistema che ci chiede di essere performanti, produttivi, sempre disponibili – e questo sistema ci toglie tempo, spazio e lucidità per essere davvero presenti nella relazione. C’è una differenza sottile ma fondamentale tra controllo e presenza. Controllare significa sorvegliare, correggere, imporre. Essere presenti significa ascoltare, osservare, sostenere. Troppo spesso, per paura, ci rifugiamo nel controllo — ma è la presenza autentica a fare davvero la differenza. E se invece imparassimo a stare? Come sempre nell’Educazione Responsabile, la chiave non è togliere ma accompagnare. Non è controllare ma essere in relazione. Non è giudicare ma comprendere. I social possono essere terreno di confronto, espressione, identità. Possono essere anche trappola, relazioni tossiche, dipendenza. Dipende da come vengono usati. E soprattutto: da come noi adulti ci poniamo, se come alleati o come censori. È un errore pensare che il mondo online sia solo alienazione e dipendenza. Per molti ragazzi è anche uno spazio di scoperta identitaria, di appartenenza, di relazione. Sta a noi adulti riconoscerne le potenzialità senza chiuderci nella paura: perché demonizzare significa isolarsi, mentre comprendere significa educare. Non si tratta solo di “limitare l’uso” dei social, ma di coltivare pensiero critico, alfabetizzazione digitale, consapevolezza emotiva. Insegnare ai ragazzi a distinguere tra contenuti tossici e relazioni nutrienti, a riconoscere i meccanismi di persuasione, a scegliere quando disconnettersi e perché. Questo è un gesto profondamente educativo, e oggi più che mai necessario. Educare a un uso consapevole.La domanda vera non è: “Come proteggiamo i nostri figli dai social?” La domanda è: “Come li accompagniamo a diventare persone consapevoli anche nel mondo digitale?” Per farlo, servono adulti che: • ascoltano senza giudicare; • pongono limiti, sì, ma con senso e coerenza; • si fanno domande prima di dare risposte; • sono disposti a imparare con e dai loro figli. Per concludere “La generazione ansiosa” ha il merito di accendere un faro sul disagio, ma non possiamo educare nella paura. Possiamo, invece, coltivare la fiducia, la presenza, la responsabilità reciproca. Come sempre, la vera rivoluzione parte dalla relazione. Anche – e soprattutto – nell’era digitale. Trova la tua via per migliorare la relazione con i tuoi figli e il rapporto con la tecnologia, approfitta di questa offerta a tempo. 2 audio corsi e un webinar, piu di 6 ore di formazione con uno sconto speciale!
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