Qualche giorno fa, mi sono imbattuta in un video, disgustoso purtroppo ma molto affascinante. Pare essere il primo video che mostra un episodio di matrifagia dall’inizio alla fine. Se hai lo stomaco forte, puoi vederlo qui. Il fenomeno in cui una madre scolopendra si lascia mangiare dai suoi piccoli è un esempio raro e affascinante di un comportamento chiamato matrifagia, che significa letteralmente “mangiare la madre”. In alcune specie di scolopendre, specialmente in condizioni ambientali estreme o in assenza di fonti di cibo, la prole consuma il corpo della madre come primo pasto. Questo atto di auto-sacrificio garantisce che i piccoli abbiano una fonte di cibo ricca di nutrienti subito dopo la nascita, aumentando così le loro possibilità di sopravvivenza. Anche se può sembrare brutale, questo comportamento è in realtà una forma di investimento parentale, in cui la madre massimizza la sopravvivenza della propria linea genetica offrendo il suo stesso corpo come nutrimento. Questo comportamento riflette le intense strategie di sopravvivenza osservate in natura, dove sacrificio, adattamento e istinti biologici guidano la vita e la morte delle specie. Gli scienziati studiano questo comportamento per comprendere meglio la biologia evolutiva, le strategie riproduttive e le complesse relazioni tra genitore e prole nel regno animale: di cui noi facciamo parte. Ma cosa accade se spostiamo questa immagine nel campo simbolico della genitorialità umana?Essere genitori significa, in un certo senso, lasciarsi mangiare. I figli ci spogliano delle nostre certezze, mettono in discussione le nostre convinzioni più radicate, ci mettono a nudo. Consumano, senza volerlo, le parti di noi costruite su paure, ferite antiche, automatismi inconsapevoli. Ci rosicchiano dentro quando ci dicono, ad esempio, “Tu non mi ascolti mai”, e qualcosa in noi si incrina: non solo come genitori, ma come figli, un tempo inascoltati. Ci mordono l’anima quando si arrabbiano, e invece di autoregolarci e contenerli con amorevole fermezza, scatta l’automatismo e li zittiamo. Questo accade perché da bambini non siamo stati autorizzati a esprimere la nostra rabbia e, probabilmente, a sentirla. Essere “mangiati” dai figli, se accettato, può essere un processo responsabile di disfacimento e rinascita. Attraverso il loro sguardo, i loro bisogni, le loro sfide, i figli ci portano a confrontarci con le parti più irrisolte della nostra storia. E spesso, nel cercare di educarli, finiamo per ristrutturare noi stessi. SPOILER: spesso, il vero problema esistenziale è l’identificazione. No, noi non siamo la nostra storia, siamo molto di più della mera somma delle nostre esperienze, siamo la coscienza che impara la pace attraverso le esperienze. Continua a seguirmi, approfondirò questo argomento. Nel frattempo, se vuoi un suggerimento efficace e responsabile, ripeti spesso la frase “Io non sono la mia storia” e vedi che effetto ti fa. Se ti fa piacere, rispondi pure a questa e-mail oppure scrivimi a info@educazioneresponsabile.com
Ma andiamo avanti…Quel che resta, dopo questo simbolico “divoramento”, è uno scheletro emotivo ed esistenziale, una struttura essenziale da cui può emergere qualcosa di nuovo: una modalità diversa di percepire il mondo e di affrontare le esperienze; libera da ciò che non ci appartiene più perché, spesso, sono solo pesanti e scomode eredità: credenze limitanti, modelli disfunzionali e antiche paure. Questo accade quando smettiamo di dire “Così si fa e basta!”, e ci chiediamo “Cosa serve davvero, a entrambi, in questo momento?”. Oppure quando chiediamo scusa dopo uno scatto di nervi, senza sentirci deboli o sottomessi, ma umani e responsabili. Nel nostro “farci mangiare” per nutrire, possiamo scoprire una pazienza consapevole, non forzata, non addestrata, ma nata dalla scelta profonda di esserci in un altro modo. In questa nudità possiamo ricostruirci come esseri umani interi: più veri, più responsabili, più consapevoli. Non più genitori “perfetti”, ma genitori vivi, presenti, integri. Analogia simbolicaMolti genitori mettono i bisogni dei figli prima dei propri, anche a costo di rinunciare a sogni, tempo libero o benessere personale; lavorano instancabilmente per assicurare stabilità, a volte trascurando la propria salute fisica o emotiva, e soffrono in silenzio per non trasmettere ansie o difficoltà ai figli. C’è chi rinuncia alla propria passione artistica perché “non è il momento” (nella newsletter del 1 giugno ho raccontato del mio ritorno al pianoforte, addirittura in una band e dell’energia e gioia che mi regala questa esperienza), chi salta ogni giorno il pranzo o si sveglia all’alba per “avere tutto pronto”, chi si ritrova a mettere in pausa se stesso per anni. In questo senso, si può parlare di una “matrifagia emotiva o simbolica”, in cui il genitore si offre come nutrimento psichico, emotivo e pratico per la crescita dei figli. Limite dell’analogiaTuttavia, c’è un confine fondamentale: negli esseri umani l’autosacrificio totale non è sostenibile né auspicabile. Quando il genitore si annulla completamente, il messaggio implicito per il figlio può diventare gravoso. “La tua felicità dipende dal mio annientamento” Questo può ostacolare l’autonomia del figlio e creare dinamiche di senso di colpa, dovere o iper-responsabilità. Molti adulti oggi ne portano i segni: figli di genitori che hanno dato tutto, ma a caro prezzo. Una prospettiva educativa responsabile.Una genitorialità responsabile mira a nutrire i figli senza consumarsi del tutto, cercando un equilibrio tra cura e confini, presenza e spazio, dono e autoregolazione. Proprio come in natura alcuni animali offrono tutto in un atto finale, gli esseri umani possono invece trasmettere amore e valore anche prendendosi cura di sé. Accade quando un genitore dice: “Stasera ho bisogno di riposare, ci sarò domani per te”, o quando decide di lavorare su di sé, per non trasmettere le stesse ferite che ha ricevuto. Questo modello insegna ai figli una cosa preziosa: che anche chi ama profondamente ha diritto a esistere come individuo. In questo senso, essere genitori non significa solo crescere figli. Significa lasciarsi crescere da loro. |
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