Per crescere un bambino ci vuole un villaggio


Quando AVSI mi ha invitata in Sierra Leone, sapevo che sarebbe stata un’esperienza forte. Ma vedere con i miei occhi ciò che spesso resta confinato nei numeri dei report è stato completamente diverso. Ho incontrato bambini soli, vulnerabili, privi di protezione, e ho ascoltato storie di sfruttamento e abusi che non avrei mai voluto sentire. Ma ho anche visto speranza, persone che si dedicano anima e corpo per cambiare le cose, e comunità che stanno riscoprendo un nuovo modo di prendersi cura dei più piccoli.

Nel 2021, grazie al finanziamento della Commissione per le Adozioni Internazionali (CAI), è nato il progetto HOME, realizzato in Sierra Leone da AVSI, una ONG italiana attiva dal 1972 in 42 Paesi. L’adozione internazionale nasce come strumento per offrire una famiglia ai minori privi di un contesto familiare adeguato, ma il primo obiettivo deve essere quello di favorire il loro reinserimento nel Paese d’origine. In questa prospettiva, HOME è un progetto di protezione dell’infanzia che contribuisce a prevenire l’abbandono dei minori e a garantire accoglienza e cure ai bambini che non hanno più una famiglia.

Uno degli elementi più interessanti di HOME è la valorizzazione della pratica Menpikin come una risorsa.

In Sierra Leone tante persone accolgono informalmente bambini non biologici nella loro famiglia. Un’idea che richiama il proverbio africano “Per crescere un bambino ci vuole un villaggio”. Tuttavia, spesso questa forma di accoglienza si trasforma in sfruttamento: troppi minori vengono trattati più come forza lavoro che come figli. Il progetto lavora per valorizzare questa risorsa culturale, ma al contempo garantire maggiore protezione ai bambini.

Il lavoro centrale del progetto però è sugli affidamenti formali.

Oltre all’accompagnamento e supporto per le famiglie Menpikin, HOME ha introdotto, in collaborazione con il Ministero per la protezione dei minori, un sistema pilota di affidamento formale, selezionando 22 famiglie, offrendo loro un piccolo supporto economico per rafforzare le loro attività lavorative, e soprattutto formandole perché fossero pronte ad accogliere minori vulnerabili, con passati traumatici. Parallelamente, il progetto ha anche lavorato con gli istituti di accoglienza (Children’s Homes e Interim Care Centers), rafforzando le competenze del personale per migliorare la gestione dei minori ospitati e migliorando le condizioni delle strutture, che sono al limite dell’accettabilità. Proprio da questi istituti sono stati quindi identificati i bambini e le bambine idonee all’affidamento.

Uno degli aspetti più delicati è stato quello dell’educazione e della disciplina. Durante la mia visita ho intervistato educatori e insegnanti che hanno partecipato ai corsi di formazione sull’educazione responsabile e sulla comunicazione non violenta.

Tutti mi hanno raccontato come il loro approccio ai bambini sia cambiato: in passato punivano e talvolta picchiavano i loro figli senza farsi domande, invece oggi provano a capirli. Quando un bambino si comporta male, invece di essere punito, viene accolto con una domanda: “Come ti senti? Cosa è successo?” Il cambiamento non è stato immediato, ma la consapevolezza è cresciuta giorno dopo giorno, e oggi gli insegnanti e i genitori vedono gli effetti positivi di una relazione basata sull’ascolto piuttosto che sulla paura.

Lesley Oseh Wenzo, il capo della comunità di Waterloo, una cittadina di circa 70mila abitanti, ha accolto J. quando aveva 11 anni. Il giorno in cui J. è arrivata a casa, i figli di Lesley l’hanno accolta con un grande abbraccio e l’hanno coinvolta immediatamente in un gioco. Nel tempo hanno insegnato a J. come si vive in una casa con i servizi igienici, le hanno insegnato a prendersi cura degli spazi comuni, a lavare i piatti e tanto altro.
Lesley Oseh Wenzo
Amie Krngba mi ha raccontato che il figlio maggiore ha dato a L., la sua bimba in affido di 14 anni, qualche soldino da spendere per uscire con le amiche in un giorno di vacanza. A 14 anni in Sierra Leone molte ragazzine sono già madri. Grazie al progetto HOME di AVSI, L. ha una mamma preparata e una famiglia che la proteggono.
Amie Krngba
L’intervista con Ramatu e Ali Kamara, genitori affidatari di M. (10 anni) è stata davvero… onesta 🙂Ramatu, la mamma, mi ha confidato che prima del corso, quando i bambini erano nervosi, agitati oppure per punirli di qualche marachella, gli faceva fare il Pump. In pratica sono degli squat, di quelli veri, fino a terra, con le braccia incrociate sul petto, stringendo i lobi delle orecchie tra le dita. Per 30 minuti… ho chiesto, non per dire, reali. Dopo questa mezz’ora a dir poco atletica, naturalmente i bambini erano così esausti che non si sentivano più, anche perchè spesso cadevano addormentati. Insomma, per quanto il racconto possa far ridere ai più, la realtà era al limite della crudeltà. Malgrado Ramatu fosse da anni una donna impegnata attivamente nella tutela dei bambini del suo territorio e fosse autenticamente interessata al loro benessere, culturalmente aveva bisogno di comprendere il valore della relazione prima di tutto.
Ramatu e Ali Kamara

Il progetto HOME lavora quindi con tutti gli adulti responsabili del benessere dei bambini e delle bambine: gli attori istituzionali, le famiglie, le scuole, gli istituti di accoglienza. Considerato le pratiche culturali, HOME ha deciso di concentrare i suoi sforzi soprattutto su quei bambini e bambine che non vivono con i loro genitori.

Per questo il lavoro svolto da AVSI con le famiglie affidatarie formali che ho incontrato è così importante: il progetto ha dimostrato che esiste la possibilità di proteggere e prendersi cura di bambini e bambine vulnerabili, consentendo loro di vivere in una famiglia consapevole dei loro bisogni anche in contesti difficili come la Sierra Leone.

Una delle sfide del progetto HOME per assicurare la protezione dei minori, anche durante la selezione per i bambini e le bambine idonee all’affidamento, e’ la mancanza di documenti ufficiali. In Sierra Leone è comune che i bambini non vengano registrati alla nascita e i minori che vivono in istituto raramente hanno una documentazione che li riguardi. La mancanza di certificati di nascita e la debolezza delle istituzioni competenti rendono quindi difficile il riconoscimento legale dei bambini.

Per questo, grazie alla collaborazione tra il Ministero e i centri di accoglienza, rafforzata durante il progetto, è stato avviato un programma per garantire che ogni bambino negli istituti abbia almeno un fascicolo personale e il certificato di nascita.

A noi sembra una banalità, non immaginiamo cosa significhi vivere senza avere un documento di identità. In Sierra Leone questo lavoro non è scontato: senza documenti, molti bambini restano invisibili per le istituzioni e privi di diritti fondamentali. Fornire loro un’identità legale significa dare accesso alla protezione e ai servizi essenziali, rafforzando il percorso verso un’accoglienza più sicura e consapevole.

Nonostante le difficoltà, il progetto sta già dando risultati importanti. Il rafforzamento della collaborazione tra Ministeri, istituti, famiglie e comunità locali ha permesso di migliorare la qualità della protezione dell’infanzia, che normalmente si basa sulla buona stella del singolo bambino e quindi delle persone che incontra, in base alle intenzioni che hanno: c’è chi si assume la responsabilità e chi invece cerca profitto, anche nei modi peggiori. Il percorso verso un sistema di affidamento più strutturato in Sierra Leone è ancora lungo, ma i progressi fatti dimostrano che il cambiamento è possibile.

Questa esperienza mi ha fatto riflettere su quanto siano simili le domande, i dubbi e le sfide educative in Africa come in Europa. La necessità di un’educazione basata sul rispetto, sulla comprensione e sul dialogo non ha confini geografici. In ogni parte del mondo ciò di cui i bambini hanno più bisogno è sentirsi ascoltati e protetti e puoi immaginare con me, che mondo migliore sarebbe quello abitato da adulti cresciuti nell’amore e che a loro volta educano con amore.

Tornando a casa, ho portato con me storie di dolore ma anche di rinascita. Ho visto cosa significa davvero investire nella protezione dell’infanzia: non solo salvare vite, ma costruire il futuro di un intero Paese.

Ero abbastanza scettica sull’operato delle ONG, ma in questo viaggio con AVSI ho visto con i miei occhi quanto anche una piccola donazione possa fare la differenza nella vita di un bambino, permettendogli di avere cibo sicuro, abiti in ordine e materiale per studiare e diventare adulti consapevoli.

Grazie ad AVSI e a tutti coloro che, in condizioni spesso difficilissime, dedicano la loro vita a dare un futuro ai bambini più vulnerabili.

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